JUNG E LA METAFORA VIVA DELL’ALCHIMIA. Immagini della trasformazione psichica.

I curatori:

Simona Massa Ope, Arrigo Rossi, Marta Tibaldi

Moretti&Vitali, Bergamo, 2020.

 

 

 

Gli autori e i temi:

Arrigo Rossi, Introduzione
Simona Massa Ope, Jung e la metafora alchemica
Stefano Carta, L’opera al nero. Nigredo
Simona Massa Ope, L‘opera al bianco. Terra alba: metafore dell’anima.
Marta Tibaldi, L’opera al rosso. Il “compimento”. Stati di rubedo nell’esperienza analitica.
Clementina Pavoni, Il lavoro delle immagini. Silenziose alchimie. L’alchimia della pietra.
Nicole Janigro, Il lavoro delle immagini. Silenziose alchimie. Emersioni.


Abstract

Gli autori affrontano, attraverso la semantica del colore, i contenuti propri dell’alchimia come conoscenza sapienziale: nigredo, albedo, rubedo, coniunctio oppositorum, potere trasformativo delle immagini. In particolare, Simona Massa Ope tratta il rapporto tra l’alchimia e la psicologia analitica di C.G. Jung, che riconosce in essa il fondamento storico e archetipico delle sue teorie. L’autrice affronta, inoltre, l’opera al bianco, quale fase dell’opus in cui la mente si inizia alla visione simbolica, e la psiche rivela il suo linguaggio metaforico e poetico, evidenziando dell’alchimia il valore di metafora “viva, secondo la moderna ermeneutica di P. Ricoeur, ovvero in grado di generare senso e ri-descrivere creativamente la conoscenza dei fenomeni psichici.


Una moderna immagine di coniunctio.

        “L’immagine del quadro di Marc Chagall, Amanti vicino a un ponte (1948), basterebbe da sola a fare da introduzione a questo libro. In un solo mirabile colpo d’occhio sono racchiusi tutti i temi di cui ci occuperemo; nigredo, albedo, rubedo, potere trasformativo delle immagini, la coniunctio, in sostanza tutti quei contenuti psicologici e spirituali che l’alchimia per sua natura costella.” (Arrigo Rossi, p.11).

Non “impigliarsi”.

         Questo libro ha radici lontane e una lunghissima incubazione. Risale agli anni della mia formazione in psicologia analitica, quando uno dei miei didatti, Piergiacomo Migliorati, propose il tema dell’alchimia nella teoria junghiana agli allievi della scuola dell’AIPA (Associazione Italiana di Psicologia Analitica). Ce ne parlò con una certa meditata disinvoltura, ovvero, come si direbbe nel libro dei mutamenti, L’I Ching, non “impigliandosi” in questioni sulla legittimità del metodo – certamente non scientifico, essendo l’alchimia un approccio alla conoscenza di tipo sapienziale – o sulla attualità storica di un simile strumento.

        Il didatta trasformò le nostre menti in un laboratorio, ed esplorammo ciò che accade nel campo relazionale, conscio e inconscio, tra paziente e analista attraverso le immagini simboliche del Rosarium Philosophorum (Trattato di alchimia pubblicato a Francoforte nel 1550 e attribuito al medico, teologo e alchimista catalano Arnaldo di Villanova, nato all’incirca nel 1240).

Lasciarsi alle spalle materialismo, concretismo e letteralismo.

        Il nostro maestro ci diede sì piena libertà di esplorazione e ideazione, ma si preoccupò di chiarire un unico fatto fondamentale: potevamo accostarci all’alchimia solo a patto di lasciarci alle spalle ogni tipo di materialismo, concretismo e letteralismo, dunque solo a patto di visualizzare in ogni suo aspetto un processo metaforico, non allegorico, metaforico: come si direbbe nella moderna ermeneutica linguistica, da Paul Ricoeur in poi: un processo di accumulo di significato potenzialmente infinito.

        Scrisse Migliorati in un suo lavoro del 1985, intitolato La funzione dell’immagine nel lavoro analitico:

“L’alchimia è, dunque, prospettata da Jung come una riserva immaginale di intuizioni psichiche a carattere universale, da cui una coscienza in atteggiamento simbolico può trarre una serie di nessi tra materia e psiche, a condizione che la materia venga percepita e ricostruita come metafora, ovvero secondo una categoria relazionale di rimando tra significante e significato, e che della metafora venga fatto un uso simbolico, per cui il rimando diventa potenzialmente infinito” (Cfr. P. Migliorati, La funzione dell’immagine nel lavoro analitico, 2° Seminario residenziale, AIPA, Assisi, 1985).

Una grande metafora      

        In sostanza, la materia su cui opera l’alchimista è nel suo insieme una grande metafora del processo di trasformazione psichica, sia a livello individuale che collettivo; l’energetica psichica ha dunque nell’alchimia il suo fondamento archetipico, ma al contempo una variabile infinita di manifestazioni, ogni volta una sua intrinseca avventura, così come è unico e irripetibile ogni processo individuativo all’interno di una relazione altrettanto unica e irripetibile, quella dell’analista con il suo paziente.

Perché è una metafora viva

        Per questo, come curatori, pensando a un discorso sull’alchimia, abbiamo voluto sottolinearne la connotazione di “metafora viva”; viva perché non è soltanto un reperto culturale appartenente al passato storico ma un modo vitale, fertile, per pensare l’energia della trasformazione psichica: come ogni vera metafora – in senso moderno non come figura retorica di abbellimento – ha valore di “verità metaforica”, al pari della verità scientifica (Cfr. Paul Ricoeur, La metafora viva. Dalla retorica alla poetica per un linguaggio di rivelazione): ri-descrive e ri-crea il mondo, la realtà, genera vita nuova.

La semantica del colore

        Il fondamento archetipico del dinamismo energetico della trasformazione è esattamente nel nucleo centrale della semantica del colore, universalmente condivisa dagli alchimisti, al di là della estrema variabilità delle immagini, dei simbolismi e degli assunti linguistici che si possono riscontrare nei vari trattati.

        I fondamentali passaggi della materia psichica nel fuoco alchemico sono rappresentati dalla cosiddetta opera al nero, opera al bianco e opera al rosso. Sottolineo il valore di stato oltre che di stadio di tali fasi trasformative, stato della coscienza oltre che stadio evolutivo del processo. I due concetti possono essere coesistenti e possono intersecarsi.

        “La nigredo o fase della nerezza […] in essenza rappresenta l’esperienza psicologica, ontologica e cosmologica della morte. A essa può, deo concedente, seguire una rinascita, ovvero la trasformazione di una vecchia forma simbolica della libido, in una forma nuova, comprensiva e rigenerata. […] La nigredo non consiste affatto nell’uscita progressiva e trionfale dalla ‘depressione’ verso un umore ‘felice’, un attivismo instancabile, un’autostima inflazionata […]. Lo scopo dell’alchimia è la redenzione del significato dell’esistenza e della natura, e questo significato è essenzialmente tragico.” (Stefano Carta, pp.65-66, 69).

           L’opera al bianco o albedo, che costituisce virtualmente la prima meta dell’opus, introduce il simbolismo della luna, dell’acqua, dell’argento, e dunque dell’imbiancamento, sullo scenario della coniunctio elementorum. Si attiva dunque un processo di purificazione della materia che trascolora nel fuoco alchemico, ovvero nella attivazione energetica, dal nero al bianco. Come interpretare un simile passaggio e un simile stato di coscienza? Ritengo che la pregnanza dell’albedo consista nell’acquisizione della visione simbolica, la possibilità di vedere il deus absconditus nell’oscura opacità della materia, nei nostri cosiddetti materiali psichici, ovvero il simbolo che anela alla rivelazione. L’albedo non è ancora una rinascita ma piuttosto un risveglio, si accende una funzione nella mente, e il mondo si risveglia in una luce nuova, luce lunare, argentea, la mente diventa metaforica, capace di cogliere metafore e di sintetizzare metafore. In questo io sposo la tesi hillmaniana secondo cui “per la comprensione più profonda della mente siamo obbligati a rivolgerci alla poesia” (J. Hillman, 2010, Psicologia alchemica). La metafora è, infatti, l’unità naturale – il comun denominatore – sia del linguaggio poetico, sia del linguaggio psichico o dell’anima, ed è connaturata al linguaggio immaginale dell’alchimia.

        […] nella metafora alchemica lo stato di rubedo si riferisce al “compimento”: rubedo indica il momento di trasmutazione finale dell’opera, la realizzazione della “pietra filosofale”, ovvero il raggiungimento della meta alchemica stessa […] la rubedo nasce dunque dal superamento delle esperienze di “dissoluzione” della illusoria compattezza unitaria della coscienza e della psiche, dalla “morte” degli stati precedenti, verso l’integrazione degli opposti a livelli di complessità sempre maggiori, in una visione olistica del mondo e di noi nel mondo nella quale siamo consapevoli dello “spirito di vita” che vive in noi e che ci vivifica […] dopo ogni esperienza di morte psichica.” (Marta Tibaldi, pp.172,180).

Silenziose alchimie: il lavoro psichico delle immagini.

        “Fin dalla scuola elementare Jung ha amato disegnare e raccogliere pietre. In seguito anche scolpirle. In qualche modo con la pietra Jung ha intrattenuto una relazione per tutta la vita. […] La pietra sembra rappresentare quel tratto di congiunzione tra il distante e definitivo mondo della natura e la capacità dell’uomo di trasformare questo forte e solido materiale in un’immagine rappresentativa del dialogo tra coscienza e inconscio che gli uomini creativi sanno costruire. […] Penso che avvenga una sorta di relazione particolare, molto vicina a un processo alchemico misterioso, tra chi sia riuscito a dare immagine al concetto intorno a cui l’intelletto si affanna inutilmente e colui che quell’immagine accoglie e comprende dentro di sé.” (Clementina Pavoni, pp. 215, 217, 219).

        “La storia della nostra esistenza è anche un racconto per immagini. Dal primo volto umano che, neonati, abbiamo intravisto, a quelle che, adulti, collezioniamo, incontriamo durante una visita a una mostra, a un museo. In questa epoca di inflazione di immagini, tocca al singolo il passaggio da una visione passiva a una scelta creativa: per diventare noi cacciatori di immagini che nutrono, trasformano, trascendono. […] Jung è tra i primi a credere a un faccia a faccia con la nostra produzione immaginale, a valorizzare la ‘fantasia creativa’, a sottolineare la necessità di dedizione (alle immagini) […] Che diventano, come sottolinea James Hillman, <<un luogo dove andare>>.” (Nicole Janigro, pp. 233, 235).

  

Comprendere l’opera al bianco: una suggestione teatrale…

Ricorderete il film Anna dei miracoli (The miracle worker è un film del 1962 diretto da Arthur Penn, ispirato alla storia vera della sordo-muta e cieca Hellen Keller, Alabama, 1880. La storia fu scritta per il teatro da W. Gibson, e poi ne fu fatta una trasposizione cinematografica; nel 1960 ci fu la famosa versione teatrale italiana con Anna Proclemer e la regia di L. Squarzina).

È la storia di una bambina sordo-muta e cieca che vive in famiglia come una piccola selvaggia a cui non si può chiedere altro che un comportamento un pochino più adattativo. Viene invece iniziata da una istitutrice illuminata e dotata di una particolare sensibilità ad entrare nel mondo dei segni, dei rimandi, delle connessioni. Ha in mente per lei un’opera al bianco. È un film in cui si rappresenta in maniera drammatica la connessione, il ponte che deve stabilirsi tra le cose e i segni che le rappresentano, condizione necessaria per accedere al linguaggio, alla comunicazione, ad ogni forma di espressione, in sostanza al simbolico, inteso qui ad un primo livello, quello della connessione univoca tra significante e significato. Ricorderete quante volte l’educatrice deve digitare sul palmo della mano della bambina il nome della cosa, il nome delle cose, attraverso il linguaggio tattile dei sordo-muti. Per lungo tempo, per la bambina sarà solo un gioco senza senso; riceve sul palmo della mano delle sensazioni, tattili, cinestetiche, dei movimenti, che lei imita perfettamente senza tuttavia comprendere la loro “significazione”. Poi un giorno l’insight, la parola “acqua” (elemento che appartiene alla simbologia dell’albedo!), digitata sul palmo della mano, si collega nella sua mente con l’esperienza sensoriale dell’acqua. L’istitutrice le rovescia una brocca d’acqua addosso, la immerge nell’acqua, una scena intensa e violenta, come una iniziazione, come un battesimo disperato, un disperato tentativo di risveglio, e poi digita convulsamente la parola sulla mano. E avviene il miracolo, la mente della bambina si apre al mondo dei segni: da quel momento ogni cosa ha un nome, e può essere pronunciato e scritto.

 

Il libro Jung e la metafora viva dell’alchimia. Immagini della trasformazione psichica è stato presentato dai curatori e dagli autori: nella videoconferenza a cura dell’Associazione Philo-Pratiche filosofiche, Milano, 22 marzo 2021; nella videoconferenza organizzata dalla Sezione di Milano dell’AIPA (Associazione Italiana di Psicologia Analitica), per il seminario con F. Alfani, A. Rossi, S. Massa Ope, M. Tibaldi, C. Pavoni, Jung e la metafora viva dell’alchimia. Immagini della trasformazione psichica, Milano, 20 novembre 2021.

 

 

Recensione di
Moreno Montanari
La metafora viva dell’alchimia
www.doppiozero.com

 

“Ernst Cassirer lo aveva colto perfettamente: l’essere umano non è un animale razionale ma un animale simbolico; per noi, cioè, non è in alcun modo possibile accedere al reale senza l’intermediazione del simbolico che ne organizza l’esperienza. Ma che succede se proprio la più peculiare delle nostre caratteristiche si atrofizza, sin a farci temere di vivere in un mondo caratterizzato da un analfabetismo simbolico figlio di una sempre più diffusa e pericolosa tendenza alla letteralizzazione? Si tratta di una condizione più volte denunciata da James Hillman che invocava come antidoto il recupero della visione alchemica, nella quale Jung riconosceva una protopsicologia del profondo. Ecco perché il libro Jung e la metafora viva dell’alchimia, curato da Simona Massa Ope, Arrigo Rossi e Marta Tibaldi, e con contributi anche di Stefano Carta, Clementina Pavoni e Nicole Janigro, uscito di recente per Moretti&Vitali (pp.265, euro 20), appare quanto mai utile e attuale” (continua).

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SIMONA MASSA

Psicologa, psicoterapeuta e psicologa analista junghiana (AIPA, IAAP).
Nella vita ho percorso parallelamente due sentieri, che rispecchiano le mie passioni principali e il mio processo di umanizzazione:
la psicologia del profondo e la scrittura.

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