Amanti di vita, amanti di morte: la violenza relazionale che non finisce sui giornali

Portano in classe

una bottiglia d’acqua

le ragazzine,

dove mai sta arrivando il deserto?

Hiroshi Shino,  da The soft landing, 2003


“Amanti di vita, amanti di morte: la violenza relazionale che non finisce sui giornali”

di Simona Massa Ope

in Studi junghiani, Polis e psiche, N.52, 2020, pp. 53-68.

Studi Junghiani – Open Access, (52). Recuperato da https://journals.francoangeli.it/index.php/jun/article/view/9665


Abstract

L’articolo analizza il fenomeno della violenza relazionale “sottile” nel rapporto uomo-donna, e gli irretimenti derivanti dalla violenza simbolica, sedimentati storicamente nella psiche femminile all’interno delle società patriarcali; tali irretimenti forniscono l’elemento inconscio di collusione che espone la donna a numerose violazioni dell’alterità nel rapporto con l’uomo. A tal fine, l’autrice propone l’interpretazione in chiave simbolica di un noto film del regista W. Allen, Match Point (2005), in cui è rappresentata una situazione di violenza estrema nei confronti di una figura femminile da parte del partner maschile che, a causa del reciproco coinvolgimento sentimentale, sente minacciato il proprio equilibrio narcisistico e la sua scalata sociale. Si prospetta, dunque, un tradimento dell’anima che, come afferma il filosofo francese Lévinas, si manifesta attraverso “il volto dell’altro”. Queste storie che sembrano riguardare l’ambito esclusivamente privato dei rapporti tra uomini e donne, in realtà hanno una corrispondenza nell’ambito della vita pubblica degli esseri umani, nella polis, perché ciò che accade nella psiche degli individui, nelle loro relazioni personali, è sempre anche una questione politica.


Estratto: ovvero, la parte per il tutto

 

Uomini e donne. Storie private o pubbliche?

Ho avuto vent’anni negli anni ʼ70. Era un’epoca in cui si affermava che il privato è politico. In quel particolare periodo storico e sociale questioni intime come il corpo delle donne, la sessualità e il rapporto di coppia, venivano affrontate e discusse nei collettivi politici, perché era chiaro, allora: ciò che accade “dentro” accade anche “fuori”, in qualche forma corrispondente. Ciò che accade fra un uomo e una donna, o in generale tra le persone, era un problema politico. Lo scenario pubblico rappresentava, allora, un ampliamento di coscienza del vissuto psichico; era l’assunzione collettiva della responsabilità etica di fronte all’altro. L’oro alchemico di quella esperienza storica collettiva ancora riluce nella contemporaneità: innanzitutto nell’idea che psiche e politica siano le componenti essenziali del nostro esistere come esseri umani. Il “dentro” e il “fuori” sono poli archetipici. Estia e Atena non sono dee contrapposte ma complementari: signora del focolare domestico, l’una, signora della polis, l’altra, sono in stretta correlazione, pur attivando la loro funzione archetipica specifica in ambiti distinti: il privato e il pubblico.

Tuttavia, non esiste nel presente, secondo la mia esperienza clinica, una vera coscienza psichica e politica della subalternità femminile nel rapporto con l’uomo, nonostante i movimenti storici di emancipazione della donna. Quello che accade intimamente tra uomini e donne rimane relegato nella sfera privata, addirittura rimane relegato nella sfera di inconscietà della coppia. Oggi si riconoscono pubblicamente i fenomeni cruenti della violenza agita a carico delle donne nel rapporto di coppia, perché ne parlano la stampa e i media, ma questioni più “immateriali” o “sottili”, come la violenza psichica relazionale, non arrivano nei luoghi di dibattito della polis. Storie private o pubbliche? Estia o Atena?

Nonostante il progressivo cammino di emancipazione sociale, le donne sono ancora irretite nel loro inconscio da un complesso sistema di sedimentazioni culturali, che determinano un vincolo di appartenenza all’uomo non fondato sulla reciprocità. Non sempre le donne sono consapevoli delle pressioni subite nelle dinamiche relazionali private e pubbliche e non sempre riescono a legittimare il loro diritto a sottrarsene. L’affermazione del proprio diritto è una questione altamente conflittuale nella psiche femminile. Confligge con la paura di non essere riconosciute dall’altro e determina il punto di fragilità della loro ricattabilità affettiva.

L’azione sinergica delle due dee vergini – vergini in senso simbolico, ovvero non condizionate nella loro soggettività dalla preminenza del maschile – permette di mettere a fuoco la consapevolezza che ciò che accade in me, e tra me e te, è una questione politica, appartiene alla vita della comunità. La mia anima di donna ferita nel rapporto con l’uomo è l’anima ferita del mondo, violata a livello planetario dall’egemonia di un maschile radicato sui principi del profitto, della discriminazione, della sopraffazione, della violenza. Una società in cui il principio femminile è in sofferenza – ed è in sofferenza non solo nelle donne ma, desidero intensamente sottolineare, anche all’interno della psiche degli uomini – presenta sia a livello collettivo che individuale una frattura dell’asse Io-Anima, traslando l’espressione dal concetto di asse Io-Sé di Neumann (1949), ovvero quel cardine virtuale intorno al quale si sviluppa la personalità sulla via dell’individuazione. Allora la psiche si desertifica, poiché non è più connessa alla linfa vitale dell’anima.

Estia porge ad Atena le sue “riflessioni”, le sue immagini interiori, le sue ferite non unte nel vittimismo fine a se stesso ma illuminate dal fuoco ardente del pathos, e Atena le porta nei luoghi pubblici della cittadinanza, ne parla con il codice del diritto, con il linguaggio creativo dell’arte, con la lucidità della sapienza. E le restituisce trasformate nei luoghi dell’interiorità. La coscienza di Estia ha bisogno della coscienza di Atena per estrarre le grandi consapevolezze dai dettagli, apparentemente insignificanti, dai così detti personalismi, dell’intimità relazionale di un uomo e una donna.

 

“Dove mai sta arrivando il deserto?”

“Quanto” o “come”?

Le modalità relazionali hanno un ruolo sostanziale nel generare sofferenza. All’interno di una relazione di sentimento, la questione fondamentale, rispetto all’altro, non è quella che solitamente ci poniamo, ovvero “quanto mi ama”, ma “come mi ama”: questo è il punto che fa la differenza. Invece, siamo concentrati sul “quanto”, che sembra darci la misura del valore di un legame, ma ha a che fare, principalmente, con un desiderio di assoluto e di totalità, che appartiene agli stadi primari della relazione umana, da cui, maturando, si dovrebbe evolvere.

Il valore di un legame, la differenza tra una relazione sana e una relazione patologica è il “come”. Conosciamo, attraverso la clinica, innumerevoli casi di donne che ricevono grandi dichiarazioni d’amore da uomini che le maltrattano, a vari livelli. Il “quanto” può depistare, il “come” è la via d’accesso alla responsabilità verso se stessi e verso l’altro. Principalmente, la domanda va rivolta alla propria coscienza, di uomini e donne: come amo i miei figli, come amo il mio amico, come amo mia moglie, come amo mia madre, come amo il mio cane. Siamo nel regno di Afrodite, di qualunque relazione si parli, che siano quelle personali, parentali, sentimentali, amicali, o quelle più impersonali ma altrettanto cruciali, quelle che riguardano il rapporto tra l’individuo e la collettività; nei luoghi della cura, gli ospedali, ad esempio, non solo si deve curare la malattia ma si dovrebbe saper gestire il rapporto con il paziente in stato di sofferenza fisica e psicologica. La consapevolezza e il rispetto delle adeguate modalità empatiche nel trattare l’altro costituiscono la cifra di ogni civiltà. 

Elementi tossici della relazione uomo-donna.

Vorrei focalizzare alcuni elementi tossici della relazione uomo-donna, spesso interconnessi tra loro, che generano malessere nel partner femminile, e che sono determinati sia da irretimenti culturali, che da collusioni psichiche inconsce, da analizzare caso per caso:


  1. la presenza di asimmetria relazionale stabile nella coppia, e dunque assenza di reciprocità, relativamente alla motivazione affettiva ed esistenziale dello stare insieme, relativamente al potere decisionale, relativamente al soddisfacimento dei bisogni, relativamente al grado di libertà nell’esprimersi e nell’agire;
  2. il prevalere di un codice maschile normativo, per cui la donna passivamente subisce o attivamente acquisisce quel modo di vedere la realtà, di valutarla, di pensare, di sentire, di agire, di rappresentarsi rispetto al mondo;
  3. la ricattabilità, legata alla dipendenza affettiva ed economica;
  4. l’evacuazione proiettiva, sul partner femminile, della vulnerabilità emotiva;
  5. il disconoscimento o la svalutazione come attacco ai sentimenti automorfici che sostengono dall’interno l’autostima;
  6. la negazione del senso e del valore del rapporto.

Senza nulla togliere alla responsabilità del maltrattante, ognuna di queste azioni relazionali è possibile se nel partner femminile c’è un gancio psicologico che le sostiene. In genere, il gancio è negli irretimenti inconsci, provenienti dall’interiorizzazione di modelli patriarcali di rappresentazione della donna e del femminile.

L’emancipazione femminile tra Persona e Anima

      Nel Gruppo Afrodite1 ci interroghiamo sul senso di identità delle donne nell’attuale contesto storico e sociale, sul loro reale senso di autostima, sulle loro fragilità emozionali e sulle ombre che si annidano nel loro inconscio; sull’aderenza a una identità di genere solo parzialmente individuata dai valori collettivi e incentrata ancora prevalentemente sul riconoscimento dell’uomo, e dunque sul rapporto di coppia, così come sulla maternità. “Esisto e ho valore se ho un uomo, se un uomo mi ha scelta”: è questa una delle possibili manifestazioni della violenza simbolica, che agisce dall’interno e che predispone alla violenza relazionale. La nostra opinione è che l’emancipazione abbia riguardato in primo luogo la Persona, in senso junghiano, ovvero tutte quelle conquiste per cui le donne hanno duramente lottato nel campo delle autonomie e dell’affermazione sociale, anche se la parità con l’uomo sul riconoscimento professionale ed economico non è certamente raggiunta né scontata; tuttavia, crediamo che la dimensione dell’Anima sia sempre molto sofferente e disconosciuta, non solo nel rapporto di coppia ma anche nel contesto relazionale collettivo. L’Anima è ancora una realtà psichica violata ed esiliata: “dove mai sta arrivando il deserto?”. Come analiste e analisti junghiani, siamo molto grati che sia venuto alla luce, in questi anni, Il libro rosso. Liber novus di C.G. Jung, dove il dialogo con l’anima è posto al centro del processo di umanizzazione, ancor prima che del processo di individuazione.

Kent Haruf, Le nostre anime di notte (2015)

      Amo citare un libro di letteratura moderna, che nasce, invero, dalla mente e dall’anima di un uomo, il testamento spirituale di Kent Haruf che, poco prima di morire, scrive un romanzo incentrato sul valore esiliato, disconosciuto e avversato dell’anima, come necessità profonda e inalienabile, sia nella donna che nell’uomo, e premessa fondante una nuova relazione di coppia e una nuova umanità: Le nostre anime di notte (Haruf, 2015). È la storia di una strana idea e di una strana coppia: una donna anziana, con grande coraggio, decide di fare una proposta relazionale a un uomo, un vecchio vicino di casa. Entrambi vedovi, soli, con ancora dentro una inalienabile voglia di aderire alla vita nei suoi valori supremi, la bellezza, la pietas, l’amore. La notte è lo scenario del loro incontro, dell’incontro di queste due grandi solitudini, direbbe Rilke, perché l’anima è un valore clandestino in questo mondo e può emergere solo al riparo da ciò che la annienta, ovvero la folle corsa diurna verso obiettivi di conquista, di potere, di sopraffazione. Leggiamo queste brevi battute:


Quando Louis le aprì la porta, lei disse. 

Posso entrare a parlarti di una cosa?…

Dimmi, disse Louis.

Mi chiedevo se ti andrebbe, qualche volta, di venire a dormire da me.

Cosa? In che senso?

Mi chiedevo se ti andrebbe di venire a dormire da me la notte. E parlare… Non dici nulla. Ti ho lasciato senza parole?… Non parlo di sesso. Sto parlando di attraversare la notte insieme. E di starsene al caldo nel letto, come buoni amici. Parlare di notte, al buio. Cosa ne pensi?


      Ecco, questa è la proposta relazionale di un personaggio letterario femminile a un personaggio letterario maschile: ma non è, forse, la stessa proposta relazionale che, declinata in varie forme, le donne da sempre rivolgono agli uomini? Fare anima insieme. E fare anima, anche facendo sesso. Sono certa che anche gli uomini, i quali, al pari delle donne, hanno un’anima, sentano risuonare una seduzione emozionale e spirituale dentro se stessi, davanti a questa proposta. Ma a volte, questa confligge con un oscuro bisogno di alienarsi quella necessità, di rinnegarla, di negarla, persino di ucciderla.

Woody Allen, Match Point (2005)2

      Vorrei citare, a tale proposito, una delle opere più drammatiche del regista Woody Allen, Match Point (2005): la narrazione del cinico omicidio di una donna e del bambino che portava in grembo, per mano del suo amante. che spara anche a un’altra donna, una vicina di casa totalmente estranea ai fatti, la uccide solo per esigenze di copertura. Il film è una lucida metafora sul bisogno di eliminare ciò che si frappone tra l’ego e il suo trionfo in questo mondo: il successo, la ricchezza, il riconoscimento sociale, la sicurezza di appartenere alla classe dei potenti. E dietro a tutto questo, c’è un altro bisogno nascosto, quello di alienarsi la propria stessa vulnerabilità, ovvero la propria condizione umana, quella legata al sentire con il cuore, con i sensi, con l’anima. Al sentirsi non più come trionfanti dominatori del gioco relazionale, ma fragili, empatici ed esposti allo sguardo dell’altro, alla sua facoltà di accoglierci o respingerci. Il contatto con l’anima non fa sentire “vincenti” in questo nostro spirito del tempo, anche se permane la sua necessità nello spirito del profondo. L’anima non rende vincenti, ma vivi.

      Nel film una sorprendente, casuale combinazione di eventi farà sì che le indagini prendano una strada collaterale, e l’assassino riuscirà a farla franca: è suo il match point, il punto vincente. Delitto senza castigo, potrebbe essere il sottotitolo del film, parafrasando e capovolgendo il titolo del celebre romanzo di Dostoevskij – che, peraltro, nell’incipit della storia, il protagonista sta leggendo. In Delitto e castigo, il senso di colpa esige e determina dall’interno, da un’oscura coscienza interiore, un bisogno di confessione, di punizione, di espiazione, e infine di riparazione, grazie all’esperienza vivificante dell’amore. Qui no. In Match Point, domina l’assoluta, machiavellica certezza che il fine giustifichi i mezzi.

Il piano simbolico di un duplice femminicidio

      Ora vorrei slittare su un altro piano, sul piano del valore simbolico di questo film, che ritengo sia molto più di un eccellente thriller, direi che è un dramma psicologico rappresentato con effetto paradosso di tipo kafkiano, dove la realtà supera se stessa, i propri limiti rappresentativi, e lo sguardo è indotto ad accedere al simbolico sulla base di una provocazione: un duplice femminicidio. Vorrei parlare, dunque, di quella violenza relazionale che non finisce sui giornali, perché non è codificata come misfatto. Infatti, Chris, il protagonista, non è perseguito dalla giustizia né condannato. Ci sono omicidi e violazioni dell’alterità che non costituiscono reato. È qualcosa che si consuma nel tessuto ineffabile della relazione psichica, materia estranea ai codici legislativi, non è in alcun modo regolamentata, attiene puramente alla dimensione etica dell’alterità, a quel sacro del rapporto umano dove la sensibilità dell’altro ha un valore e dove hanno valore gli incontri tra esseri umani.

La passione come destabilizzatore dell’ego

        La passione è un grande destabilizzatore dell’ego. Si può uccidere ciò che è nato dentro un incontro, perché a un certo punto confligge con altri bisogni dell’Io, o con sue paure ancestrali. La passione può spingerci oltre i confini delle comfort zone che abbiamo acquisito nella vita, non solo il comfort del benessere economico e sociale ma anche della sicurezza affettiva, forse un po’ claustrofobica ma rassicurante, in cui ci siamo annidati, in cui ci siamo “normalizzati”. Se l’Io si sente minacciato da un cambiamento, arriva il panico, arriva l’angoscia di morte e l’agorafobia ispirata dal dio Pan, il dio che spinge l’Io oltre i limiti di sicurezza, il dio che apre all’incontro con l’ignoto, con l’altro da sé, con il perturbante. Scrive Elena Pulcini: L’amore, inteso come passione, è ciò che costringe l’Io, per rispondere alla presenza ineludibile dell’altro, a uscire da sé, a esporsi, a sporgersi verso possibilità ignote e non ancora attualizzate. È ciò che lo induce ad aprirsi all’Unheimlich, a ospitare il perturbante e l’estraneo […]; così da rompere i confini della propria dimora, familiare e rassicurante […].3

 Amanti di vita, amanti di morte

      Ci sono diversi modi di uccidere ciò che si ama, afferma Oscar Wilde (1898) in una celebre ballata4; c’è chi uccide l’altro per davvero, c’è chi, e sono i più, lo uccide simbolicamente. O per meglio dire, uccide l’esperienza significativa, e potenzialmente trasformativa, che si è costellata in quell’incontro. Esistono amanti di vita e amanti di morte.  Ogni donna dovrebbe saper discriminare i contesti in cui può diventare un soggetto a rischio di violenza relazionale. Chiediamoci, dunque, cosa viene ucciso, e, subito dopo, come viene ucciso.

      Gli incontri umani, che nascono dalla forza motivazionale del pathos, determinano una costellazione di senso: hanno a che fare con il mitema dell’attrazione tra Eros e Psiche; quindi, ogni attrazione erotica, nel valore più ampio del termine, è al contempo un evento psichico, un evento dotato di una proposta trasformativa, di un progetto che corrisponde a un movimento d’anima; ci sono incontri che ripristinano nell’interiorità l’asse Io-Anima, quel cardine virtuale intorno al quale si sviluppa la personalità sulla via dell’individuazione. È la connessione della progettualità dell’ego con la progettualità del Sé, l’affondo della psiche umana in una trascendenza motivazionale, là dove si trovano i semi virtuali del nostro destino psichico, del nostro compimento. Attraverso l’incontro, si costella, a volte, la possibilità di esprimere parti nascoste, non sviluppate o represse del Sé: un’occasione, dunque, di integrazione psichica, una possibilità di adesione all’energia vitale e alla propria interezza. Questo accade attraverso il rispecchiamento dell’altro, attivatore e testimone di una possibilità incompiuta, che attende di prendere forma nella realtà della psiche.

      Non sempre l’Io è disposto a pagare i suoi costi per i benefici ricevuti dal Sé, non sempre è possibile accogliere la progettualità dell’inconscio, anche se viene riconosciuta. Insomma, si entra in un ambito di responsabilità, in cui la decisionalità dell’Io e la sua statura etica fanno la differenza. Comunque vadano le cose tra un uomo e una donna, fa la differenza se i due, consapevolmente, riescono a penetrare il senso psicologico del loro incontro. È l’unione di Amore e Psiche: l’amore che si riflette in una esperienza psichica.     Qualunque sia il destino di un incontro, è possibile farne oro, in senso alchemico, ovvero acquisirlo come patrimonio esistenziale inalienabile. Ferma restando la libertà di ognuno di vivere o non vivere un rapporto, tuttavia, il riconoscimento del valore costellato dall’unione permette uno scioglimento del legame, doloroso, anche molto doloroso, ma non traumatico. L’altro non viene ucciso, continua ad esistere nel mondo interno.

Soluzioni delittuose

      Al contrario, Chris concepisce freddamente una soluzione delittuosa per liberarsi di Nola, verso cui aveva nutrito una viva passione. Proprio mentre egli realizza il suo desiderio di affermazione e di potere, a dispetto del reale interesse sentimentale per la donna che sposa, la progettualità del suo inconscio lo mette di fronte ad un bivio: lasciarsi andare a una vera passione e riconoscere il desiderio di autenticità della sua anima, che gli parla attraverso Nola, sacrificando le conquiste truffaldine del suo ego, oppure tradire la sua anima e perseguire i suoi obiettivi narcisistici.

Sappiamo come va a finire. Sappiamo come va a finire innumerevoli volte in amore. “Ognuno uccide ciò che ama”, afferma Oscar Wilde, soprattutto quando ciò che si ama è un desiderio che confligge con le scelte con cui l’ego si identifica, e che non è disposto a mettere in discussione. Ed è qui che può scattare la violenza, quello “sparo” che vuole neutralizzare il potere perturbante dell’altro, per cui si possono agire modalità relazionali che annichiliscono il valore, il senso, la verità, la fertilità psicologica di quell’esperienza. Sono soluzioni mortificanti, nel senso di rendere morto ciò che era vivo e generatore di senso.

Spesso le donne raccontano storie di questo genere di mortificazione. Spesso finiscono dentro quei sogni segreti che per l’altro non è possibile realizzare. Si irretiscono nel ruolo di madri comprensive che autorizzano il partner a vivere la sua onnipotenza narcisistica. Finiscono per temere la loro stessa rabbia, ne temono la distruttività e non vedono in essa la legittima espressione di una frustrazione protratta e di un inconscio desiderio di liberazione. Infine, quando la minaccia all’equilibrio dell’ego genera angosce di morte, si può attivare una situazione di follia relazionale. Il rischio di violenza relazionale aumenta se siamo di fronte a personalità con disturbo narcisistico, con tendenze perverse o con tendenze alla dissociazione. Se non c’è un’etica dell’alterità nella persona, se non c’è una naturale disposizione empatica verso l’altro, allora l’angoscia di morte e di frammentazione prende il sopravvento. E infine arriva lo sparo. Sparare, a volte, equivale a sparire. Si può far sparire l’altro dal proprio mondo interno, si può sparire dalla scena relazionale, rendendosi indisponibili a qualunque comunicazione e contatto. L’immagine del fucile si trasforma in un fantascientifico apparecchio di disintegrazione molecolare. Non c’è il cadavere, non c’è la colpa, non c’è l’assenza, non c’è il lutto. Non c’è il dolore del lutto, tutto viene onnipotentemente nullificato e la donna, in genere, riceve e assorbe, in maniera evacuativa, tutte le emozioni legate alla perdita, le proprie e quelle del partner. Gli elementi traumatici possono conferire al lutto una particolare persistenza.

Spesso la donna si assume inconsciamente il compito di reggere l’assedio contro la distruttività agita dall’altro. Si rimettono insieme le cose frantumate, in una emorragia energetica senza sbocco. L’altro non accede alla riparazione, di questo si può solo prendere atto e lasciare andare i detriti da cui si viene invasi. Quando si accetta che il partner abbia distrutto l’esperienza relazionale, si può comprendere che esiste un limite naturale all’onnipotenza distruttiva. Egli distrugge il proprio mondo interno, non il nostro mondo interno, a patto che si ritiri dall’uomo l’investimento idealizzante di soggetto che tutto può su di noi, nel bene e nel male. Non dovremo impegnarci in una riparazione della relazione o, peggio, dell’oggetto, ma, riconvertendo l’emorragia energetica oggettuale in libido narcisistica, nella riparazione della nostra soggettività identitaria, in cui includeremo le parti originariamente luminose della relazione vissuta: quella esperienza psichica, quel discorso d’anima, quel movimento generativo che riconosciamo e legittimiamo come frutto dell’incontro, in maniera del tutto autonoma, andando oltre la sottrazione di valore agita dal partner. È un lavoro di tipo personale sul senso dell’esperienza. L’altro non c’entra più.

La capacità di amare

L’autosufficienza autarchica è un assetto difensivo antirelazionale tipico di uno stile di coscienza al maschile, dominante in questo nostro tempo, in cui la necessità affettiva è negata, agita in forme di dominio, e dislocata su oggetti transizionali inanimati, per averne maggiore controllo. Per contro, la capacità di amare, il come, non dipende da una intrinseca disposizione femminile o maschile, ma dalla disponibilità all’apertura verso l’alterità, potenzialità archetipica che riguarda entrambi i sessi: è l’immagine di Afrodite alata, quello schiudersi d’anima alla presenza dell’altro, che non sono le braccia aperte di un materno che tutto accoglie e comprende, ma la proposta di elevazione, di una esperienza di elevazione a partire dall’incontro. È al cielo che si schiudono le braccia di entrambi i partner, per diventare ali.

 


  1. Il Gruppo Afrodite (Studi sui processi individuativi della femminilità) è costituito da analiste junghiane dell’AIPA. Si veda area dedicata sul sito della Sezione Toscana dell’AIPA: [https://aipatoscana.it/2019/06/21/gruppo-afrodite-ricerche-sui-processi-individuativi-della-femminilita/]
  2. La psiche è dappertutto, possiamo percepirla ovunque c’è mondo e ha la caratteristica fondamentale, energeticamente molto attiva, di esprimersi in maniera coerente. Il fantasma psichico anela alla rappresentazione, è un esistente, e dunque si manifesta non solo nei sogni, nei sintomi, nei deliri, nelle manifestazioni psicopatologiche dei nostri pazienti, ma anche in qualsiasi altra manifestazione della mente umana, nella sua creatività. Pertanto, un personaggio letterario o filmico, si struttura in una personalità coerente con se stessa sia dal punto di vista della sanità che della patologia, sogna i sogni che sognerebbe se fosse umano e reale, fa e dice cose altrettanto attendibili, evolve e va incontro a un destino psichico.
  3. Elena Pulcini, Il potere di unire. Femminile, desiderio, cura, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. VII.
  4. La ballata del carcere di Reading (The Ballad of Reading Gaol) è un componimento poetico scritto da Oscar Wilde, dopo la sua scarcerazione dalla prigione di Reading e pubblicato nel 1898. Wilde fu accusato di omosessualità e costretto ai lavori forzati per due anni. Durante la detenzione, assistette all’esecuzione di un prigioniero che aveva ucciso la moglie. Il fatto ispirò questa poesia in forma di ballata, che è sia una denuncia contro la pena di morte, sia un’ammissione di colpevolezza per tutto il genere umano, che, secondo il poeta, uccide continuamente ciò che ama.

 

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SIMONA MASSA

Psicologa, psicoterapeuta e psicologa analista junghiana (AIPA, IAAP).
Nella vita ho percorso parallelamente due sentieri, che rispecchiano le mie passioni principali e il mio processo di umanizzazione:
la psicologia del profondo e la scrittura.

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