La croce della maternità. La passione di Maria in tre film

30 maggio 2020

Simona Massa Ope, “La croce della maternità. La passione di Maria in tre film”, in Psicoanalisi e metodo, Quando la dipendenza è un azzardo, Atti del convegno, Lucca 19 novembre 2019, vol. XIX, 2020, pp. 369-391.

      Non esiste passione del figlio che non sia anche passione della madre, e viceversa. In questo scritto focalizzerò lo sguardo sulla croce di Maria, piuttosto che sulla croce del Cristo. C’è una “passione” nell’essere madre che contrasta con l’idealizzazione collettiva della maternità, e la riconduce nel cuore del suo tremendo. La croce è un simbolismo cosmico, antichissimo e universale, contiene il cerchio e il quadrato, è un’immagine archetipica della totalità e del dinamismo energetico degli opposti, dell’incontro-scontro delle polarità psichiche. All’interno del mio discorso, mi riferirò, in particolare, a due rimandi semantici: l’essere inchiodati e l’essere divisi. Parlerò della croce della maternità attraverso l’analisi di una trilogia cinematografica, in cui si inscenano tre diverse rappresentazioni di maternità.

Estratto dall’articolo, ovvero la parte per il tutto

 

Estremi della maternità: per sé stesse, oltre sé stesse

Inizierò con un classico della storia del cinema, un film di Ingmar Bergman, Sinfonia d’autunno (Höstsonaten, Svezia, Germania Ovest, 1978), non tra i suoi più noti, dove il regista mette a confronto non solo una madre e una figlia e il loro drammatico conflitto, ma, incarnati nelle due protagoniste principali, i due estremi che confliggono nella maternità: la dedizione verso l’altro e la dedizione verso se stesse: la croce di Maria. Ogni relazione umana comporta questa tensione di opposti, essere per sé ed essere per l’altro, ma nella maternità l’attivazione del conflitto può raggiungere picchi estremi e drammatici.

      Sinfonia d’autunno è un lavoro sul lutto. Tutti i film di Bergman giungono, percorrendo diversi sentieri, a questo nodo esistenziale. E non solo per un pessimismo fondamentale, ma per la visione lucida, ineluttabile, inalienabile della realtà umana: la quotidiana partita a scacchi con la morte (Il settimo sigillo, 1957). Partita che inizia fin dai primi albori della coscienza infantile, come il regista ci racconta in Fanny e Alexander (1982).

      L’angoscia insanabile di Charlotte e le sue difese narcisistiche ed espulsive hanno creato da sempre uno iato incolmabile tra lei, la madre, e le sue due figlie, e tutto il dramma ruota intorno a questa impossibile relazione. Un conflitto estrovertito negli affetti reali della vita, che riflette in Charlotte l’essere intimamente inchiodata e divisa sulla croce della sua condizione di donna, di essere umano, di persona, con le proprie aspirazioni creative, e al contempo di madre: dedita alla sua arte e tormentata dal richiamo alla presenza e alla cura delle sue creature. Charlotte sceglie volitivamente la sua arte ed espia con un sintomo persistente la colpa di aver tradito la dimensione archetipica del materno: come le Erinni, nella trilogia di Eschilo, l’Orestea, dalle profondità dell’inconscio collettivo urlano vendetta e tormentano il traditore Oreste, allo stesso modo dolori lancinanti alla spina dorsale le rendono difficile, a volte impossibile, suonare il pianoforte, o comunque suonare senza soffrire.

      Per contro Eva, la figlia, creatura misteriosa e introversa, ha un contatto più immediato col dolore, per aver infinitamente sofferto del distacco emozionale della madre, da lei e dalla sorellina handicappata. L’handicap della figlia minore sollecita in sommo grado l’aspetto di devozione altruistica del materno, esprimendo bisogni e dipendenze che non possono andare a soluzione, e implicando una capacità di amare al di là di qualunque rispecchiamento narcisistico. La soluzione psichica di Eva: diventare il contrario della madre, dolce, caritatevole, altruista, dedita alla dimensione spirituale e alla cura degli altri.

      Ci sono morti reali nel film ma c’è anche la morte simbolica, quella che riceviamo quando non ci sentiamo amati. È di questo morire che parla Sinfonia d’autunno. Sono le morti silenti che avvengono nei nostri cuori e nei nostri corpi quando l’esperienza dell’attaccamento primario riceve una disconferma così radicale.

      Nella cultura occidentale – soprattutto nelle aree mediterranee dove regna la Grande Madre – l’ideale materno dell’amore incondizionato inchioda le donne al compito supremo della responsabilità verso la prole, verso l’altro, alla cura e alla donazione di sé, ben oltre ogni dedizione verso sé stesse. Identità indiscussa in cui la donna si riconosce ed è riconosciuta come valore . Scrive la filosofa Elena Pulcini: “L’identificazione con il materno e le sue qualità donative impone, in altri termini, alla donna la rinuncia a un’esistenza pienamente autonoma. Il dono di sé si configura come puro altruismo e oblatività, fondati sulla cogenza della natura, da parte di un soggetto che realizza sé stesso solo ed esclusivamente nell’essere per l’altro.” Questa immagine culturale del materno archetipico è profondamente sedimentata nell’inconscio collettivo. Da questo vertice, in cui convergono Super-Io e Ideale dell’Io, guardiamo le donne senza riconoscere la croce che le divide nell’esperienza della maternità: essere per sé stesse e al contempo oltre sé stesse, donate all’altro. L’occhio profondo di Bergman alterna in un rapporto figura-sfondo i primi piani della figlia e della madre, di Eva e di Charlotte, luce e ombra l’una dell’altra, rappresentando in questo focus alternato gli estremi della maternità.

      Ma questa continua, tormentosa oscillazione tra essere per sé ed essere per l’altro non attraversa forse la maternità di ogni donna? E, al di là dell’essere madre, non attraversa forse le relazioni affettive di ogni donna? Le donne sono costantemente divise tra l’amore narcisistico e l‘amore oggettuale, culturalmente inchiodate all’idea del sacrificio e alla rinuncia per adempiere sia una necessità morale che un ideale etico: l’icona di Maria. Quanto poco empatico e riconoscente è lo sguardo del mondo su questa passione quotidiana, non eroica; su questa quotidiana, intima trattativa tra la tensione degli estremi; quanta solitudine per colei che non si acquieta nell’assoluto della maternità e cerca un bilanciamento, un equilibrio possibile, spesso impossibile, tra l’amore per sé stessa e l’amore oltre sé stessa.

 

Precoce annunciazione

    Ursula Meier, in L’enfant d’en haut (Sister, “l’enfant d’en haut”, Francia, Svizzera, 2012) sovrappone diversi registri espressivi, da quello sociale e politico, che parla di emarginazione, di sperequazioni, di differenze e indifferenze di classe, a quello immaginale e simbolico, che rappresenta nella montagna innevata una complessa architettura archetipica. Il simbolismo della montagna rimanda, nel suo inamovibile, glaciale distacco, nelle sue molteplici declinazioni di senso, a una durezza estrema: il difficile mestiere di vivere e, a volte, di sopravvivere. Ed è, il film, un’asciutta metafora della sofferenza infantile: quella del bambino-uomo, e quello della madre-bambina, di entrambi, della loro intrecciata passione, la passione del figlio e la passione della madre, e dell’inquietante capovolgimento di ruoli che fa di loro una diade continuamente sull’orlo di una relazione perversa.

      Guardare a questa profonda sofferenza con occhi scevri dal giudizio è molto difficile ma necessario. Difficile, perché c’è una madre che non adempie alla sua maternità, non solo la fugge, come nel personaggio di Bergman, ma la rinnega ogni giorno, la nasconde nel segreto, e lo impone al figlio di cui non è riconosciuta né dichiarata la nascita, l’appartenenza, se non per quell’espediente – più credibile della verità – di far finta di essere fratello e sorella, non madre e figlio. Sappiamo bene che  Simon, il figlio/fratello, dovrebbe essere sollevato dal peso terribile della sua precoce “adultità”, dalla responsabilità di provvedere, oltre che a sé stesso, a sua madre, che dovrebbe andare a scuola invece di rubare, essere ricollocato nella sua realtà di bambino con la protezione di funzioni genitoriali contenitive e nutrienti, in assenza dei genitori reali. Si, così dovrebbe essere. Ma il mondo è orfano di queste funzioni, il mondo stesso, altrimenti qualcuno si sarebbe accorto, nella civilissima Svizzera, della sua condizione. D’altra parte Louise, la madre/sorella, manifesta la disperazione di una donna-bambina, inchiodata alla croce di una precoce annunciazione, inchiodata alla nostalgia per un’adolescenza stroncata dalla maternità. Un disperato bisogno di vivere che urla dentro ogni gesto di insofferenza, di impazienza, di infantile inadempienza, di irresponsabile fuga dal suo essere madre. Una coppia avvinta dentro un isolamento sociale ed esistenziale, come una coperta di neve che li cela al mondo.

      L’enfant d’en haut è un bambino che non c’è, è un “galletto”, così imita sé stesso Simon, una creatura che non si può incarnare, che non può scendere sulla terra tra le braccia di nessuno, che non può essere di questo mondo. Infatti, la sceneggiatura lo dice: Simon non frequenta che la montagna, il mondo gli rimane inaccessibile. Solo la madre/sorella telefona, entra nei bar, sale in macchina, scende dall’autobus, insomma fa avanti e indietro da una vita che continuamente la respinge e la ricaccia nella realtà da cui è palesemente in fuga.

      E la madre-bambina perverte la sua affettività in potere sull’altro, sul figlio, la perverte in merce comprabile. Tutto questo è tremendamente vero e disperatamente falso nello stesso tempo. Simon sembra dire alla madre: quello che non posso avere naturalmente dal tuo seno, che per me non sgorga, non è mai sgorgato, o lo rubo o lo compro. E così ribalta in potere surrogato la sua impotenza e la sua sconfitta. Louise sembra stare al gioco: io accetto il tuo denaro e “tratto” con te il mio amore, il calore del mio abbraccio, come merce comprabile. L’amore che non ha prezzo viene pervertito in denaro. Pervertito, non scambiato. Perché, madre e figlio, per concedersi un momento di reciproca tenerezza, devono passare sotto il giogo della perversione? Perché devono credere, e far credere l’uno all’altro, che non c’è altra possibilità tra loro che questa spietata trattativa? Perché non è possibile accedere linearmente al registro della gratuità universale dell’amore?

      Si comprende che questa “procedura” è una cornice livida, una pelle dura e ispessita, l’esito cicatriziale di ferite incurate e incurabili, e non è verità. Eppure, è una parte della verità, perché ciò che li unisce in un legame incestuale è anche una irriducibile ambivalenza, che si esplicita accanto all’amore e prima di “cedere” all’amore. Una volta che la cornice perversa si delinea, allora si permette all’amore di entrare in scena, insieme all’odio e alla rabbia. L’impasto inestricabile. E finalmente tutto si può dire e ascoltare, tenendosi abbracciati. Tenendosi abbracciati si può reggere la verità: “Io non ti volevo, Simon” (scena della camera da letto), dichiara la madre-sorella al figlio-fratello. Perché mai avrebbe dovuto volerlo, povera bambina? Eppure, lo ha accolto nel suo destino. Con ribellione, con rabbia, con rifiuto, con disperata ambivalenza. Ma lo ha accolto nel suo destino.

      La soluzione archetipica è imponente, come la montagna. La montagna sarà Madre e Padre per Simon. La montagna improvvisamente si palesa in tutta la sua numinosità quando la stagione sciistica finisce, la maniacalità del divertimento si placa, la gente se ne va con tutti i suoi invadenti, coloratissimi bagagli, la sciovia si ferma, si immobilizza l’andirivieni tra il sotto e il sopra, il sopra e il sotto, la spola che simula il continuo flusso della vita tra gli opposti delle nostre scissioni. Ed è il silenzio, la maestosità del silenzio.  Simon è solo. Non perché la madre lo rifiuta. Simon è solo perché è con sé stesso, e perché ognuno lo è.

     Le ultime sequenze mostrano il bambino solo con la montagna, dove piange e batte i denti, finalmente, come una creatura che può lasciarsi andare al dolore e alla paura. Dove passa una notte estrema, quelle notti in cui sentiamo che non c’è nessuno. C’è solo la presenza della montagna e del suo spirito. Simon ha cercato, istintivamente, quella notte, notte decisiva, notte iniziatica: è voluto restare da solo su quella vetta, lontano dal mondo, lontano da Louise, dalla fonte del suo desiderio, non ha voluto, stavolta, mercanteggiare con l’amore di sua madre, ha retto il distacco, si è emancipato dalla dipendenza che fa di lui un ladro e un mendicante. Le dipendenze rendono ognuno di noi o ladri o mendicanti. Il bambino è andato alla montagna, come un piccolo Maometto, scoprendo il suo limite umano ma anche la sua motivazione alla vita. Comunque sia. E qui la storia si apre alla speranza. Nel tragitto sulla funivia che lo riporta al mondo di sotto, alla realtà terrestre della sua vita, incontra lo sguardo della madre, che in un movimento opposto, ma non contrapposto, è andata finalmente alla montagna. A cercarlo. È solo un incrociarsi, un intenso scambio di sguardi. Ma sappiamo, da tutta la letteratura psicoanalitica sul rapporto primario, quanta importanza riveste il contatto dello sguardo tra la madre e il bambino: riconoscimento e rispecchiamento passano da lì e per tutta la vita. Ogni separazione è possibile se c’è stato l’incontro dello sguardo, il miracolo di sentirsi visti dall’altro nello specchio profondo degli occhi.

      Un’ultima domanda retorica: dov’è il padre di Simon? In questo film, la croce di Maria si fa davvero pesante. Louise sembra madre di un seme portato dal vento o dall’indifferenza degli uomini. La maternità è ancora un problema quasi totalmente a carico delle donne. Nonostante decenni, ormai, di lotte culturali per l’emancipazione femminile, per riequilibrare quel “sopra” e quel “sotto” che fa delle donne la categoria più discriminata della storia del mondo. Lotte che solo superficialmente hanno scalfito lo zoccolo duro della discriminazione, rendendole, sì, più competitive nel mondo del lavoro, ma mai paritarie nei diritti. E hanno portato la donna ad arrancare paradossalmente dietro a modelli di identificazione maschili, che però non accolgono e rispettano la specificità dell’essere al mondo di una donna, incluso il potenziale della maternità. In sostanza, modelli che alienano. La maternità di Louise è emblematicamente una maternità di solitudine e di isolamento, dove l’uomo diserta la sua responsabilità di padre. Ne è esonerato. Il seme che l’ha fecondata, restando anonimo, esprime, nel linguaggio cinematografico, la grande assenza del maschile dall’epopea della procreazione. La croce di Maria è totalmente sulle sue spalle.

 

Sulla soglia di un altro destino. La maternità nel percorso individuativo

    Quando vidi per la prima volta Gloria, Una notte d’estate (John Cassavetes, 1980), avevo ventiquattro anni e questa donna divenne per me, immediatamente, un mito. Un mito di bellezza, di sex appeal, di sfrontato coraggio e di forza. Credo che il suo fascino derivasse essenzialmente dall’unione, nella sua personalità, di componenti molto femminili con componenti molto maschili. Era, Gena Rowlands, una “dura” su vertiginosi tacchi di dodici centimetri, una donna con la pistola.

     Gloria ci appare all’improvviso, con un ironico primo piano, sulla soglia di un altro destino. Lei bussa alla porta, irrompe nel dramma di gente che sta per essere uccisa dalla mafia, e dice: “Ho finito il caffè”. Quale frase più quotidiana, più normale, più banale di questa per entrare dentro un processo di individuazione, perché di questo si tratta: questa storia di gangster, di vendette, di inseguimenti e ammazzamenti è una metafora d’ombra per la luce di un processo individuativo. Gloria ha raggiunto quello che desiderava, il suo sogno di libertà e di benessere si è realizzato. Tutta la vita ha lottato per conquistare un’autonomia fatta di soldi, abiti, gioielli, amici potenti. Ha una casa e persino un gatto su cui riversa la sua felina affettività. È stata “brava”, è stata alle regole di un mondo maschile potente e spietato, è stata la pupa del capo, la sua bambola bionda. Ed ora può considerarsi al sicuro, può godersi la vita a cui tiene moltissimo. Ma la psiche ha altri progetti per noi, che a volte spiazzano le nostre intenzioni e i nostri desideri coscienti. Gloria deve portare a compimento la sua umanità, questo è il progetto del Sé che la stana dalla sua condizione di equilibrio, le cambia le carte in tavola e le propone una vita nuova con al centro i valori che sono già dentro di lei come semi che attendono nel buio della terra.

      Le strade del Signore sono davvero infinite, e la strada di Gloria è una rocambolesca fuga sui tacchi a spillo nei meandri di una città immensa, complessa, conflittuale, divisa tra ricchi e poveri, tra integrati e disperati, attaccata a un bambino portoricano di cui “non le importa nulla”, ma per questo “nulla”, per questa annunciata, imprevista, improbabile, tardiva maternità è disposta, ad un tratto, a mettere in gioco tutta la sua vita e a sfidare la malavita newyorkese, che non scherza per niente. In una piazza del Bronx, Gloria si trova faccia a faccia con i suoi amici mafiosi che la inseguono e le ingiungono con parole falsamente concilianti di consegnare il bambino, di “farsi una passeggiata” e di ritornare alla sua vita tranquilla tra le braccia protettive della madre-mafia. Qui l’istinto materno irrompe nella sua coscienza e lei sceglie di aderirvi. Spara agli uomini che vogliono il bambino, “il suo bambino”, di cui si è innamorata inconsciamente, ma anche tutti i bambini del mondo. Non più stragi di innocenti. Questo è chiaro. È un’umanità nuova che Gloria sceglie con quel gesto folle: “Sì, sono impazzita”, ammetterà Gloria, è pazza a sfidare un sistema imbattibile, che è molto più di una squadra di gangster senza scrupoli.  È l’assetto politico di un mondo che non ha pietà per i deboli, per gli invisibili della terra, e divora tutto avidamente.

      Gloria è anche un film politico contro il capitalismo americano, contro i muri che dividono i popoli, contro la paura del diverso che deve vivere ai margini, sfruttato, e non può essere integrato. Ed è interessante che Cassavetes affidi questo messaggio salvifico a un eroe-donna, che in Gloria diventa l’androgino che sfida la misoginia del mondo maschile, affermando il valore della maternità. Della Pietà. “In pochi ci sono riusciti a sfidare il sistema”, dice Gloria al piccolo Phil, che sempre di più crede in lei. E lui la incoraggia: “Proviamoci Gloria, proviamoci, anche se alla fine saremo uccisi”. Questo è il messaggio politico e umano del film, che Cassavetes affida al bambino, all’ “uomo nuovo” che verrà. E a proposito di valori, Gloria ne ha uno, sorprendente, tutto suo, serbato nell’intimità di un mondo interiore chiuso e velato, un valore relazionale, che propone al bambino agli albori della sua funzione genitoriale nascente: “Bisogna dire addio … I morti sono come navi che salpano”. Intensissima immagine che parla della separazione come momento cruciale della relazione, al pari dell’incontro, da onorare senza fuggire davanti al dolore che comporta: bisogna saper dire addio. Forte messaggio che anticipa l’inibizione relazionale che affligge il mondo contemporaneo, dove le difese si ergono altissime a schermare e depotenziare ogni vissuto emozionale nei rapporti umani.

      Gloria, affrontando infine il suo ex amante, un uomo del Padrino, sperando e disperando di poter trovare in lui, in nome del legame che li ha uniti in passato, una possibilità di aiuto e di leale protezione, confessa, più a se stessa che a lui, che quel piccolo portoricano è molto di più per lei che l’occasione di vivere una tardiva maternità, ma rappresenta l’incredibile incontro con l’immagine embrionale di un uomo diverso da quelli che ha sempre conosciuto e a cui si è proposta nella vita, con tutta la fragilità di una donna che non può che essere dominata dal potere degli uomini: “È   intelligente, ha dei pensieri incredibili… è  la figura maschile migliore che io abbia mai avuto nel mio letto”. Così dice di lui Gloria. Gloria e Phil sono alla fine non solo una coppia reale madre-figlio, ma anche una coppia simbolica, un maschile e un femminile che travalicano l’estraneità, e nel reciproco, inconfessato gioco del cercarsi e del perdersi, testano la fiducia e infine si ritrovano nell’invincibile profondità e forza di un abbraccio d’amore. 

 

Ecce ancilla domini

      Nella Galleria degli Uffizi, a Firenze, è conservata l’opera di Sandro Botticelli, L’annunciazione di Cestello, un dipinto a tempera su tavola del 1490 circa. Colpisce, nella pala, la tensione che si avverte tra l’immagine dell’Angelo dell’Annunciazione e l’immagine di Maria. Questa tensione culmina al centro del quadro, dove la mano dell’Angelo, proteso verso la mano della Vergine, e la mano di Maria, protesa verso la mano dell’Angelo, sembrano attrarsi e respingersi al contempo, e le braccia di entrambi, nell’insieme, tracciano una diagonale, una via percorribile tra il basso e l’alto, l’alto e il basso, il cielo e la terra, l’umano e il divino. Colpisce, inoltre, la torsione a spirale nella postura di Maria, che ha le ginocchia piegate a destra, in direzione centrifuga rispetto al focus del quadro, e il busto rivolto a sinistra, verso l’Angelo. Ciò conferisce all’insieme una grande intensità drammatica, come se in questa torsione del corpo, ma anche nella gestualità delle braccia, si esprimesse sia l‘accettazione della volontà divina, “Ecce ancilla Domini”, che il suo umano ritrarsi dalla gloria e dalla croce della maternità. Maria accoglie e respinge il volere di Dio.

      Oggi, in un linguaggio psicologico moderno, e rapportato all’umano, diremmo che in quell‘icona si manifesta una posizione ambivalente e conflittuale, insita nel desiderio di maternità. Non credo che tale sgomento possa essere ricondotto esclusivamente alla Madonna, che “beata tra le donne”, è stata prescelta per “Generare Dio”, parafrasando il titolo di un saggio filosofico di M. Cacciari su alcune immagini mariane. Penso che possa essere considerato allusivo delle ambivalenze che può generare in ogni donna il dono della maternità, anche in riferimento al contesto storico, culturale e sociale in cui la maternità stessa si compie.

      La kènosis compiuta da Maria, lo svuotamento di sé per accogliere l’Altro, è la radice mistica della concezione del materno e dell’identità femminile, come dono sacrificale di sé stessa nella relazione.

      È possibile, per la donna, ridefinire la simbolica dell’apertura all’Altro, del dono di sé, rispetto alla connotazione sacrificale di cui si è sovraccaricata nei secoli dei secoli di storia dell’umanità? Oppure è necessario, per liberarsi della croce, sottrarre tout court il femminile alla simbologia dell’oblatività?

      Esiste una corrente attuale di ricerche e riflessioni che vanno in questa direzione, ovvero hanno la finalità di valorizzare la dimensione simbolica del dono all’interno delle relazioni umane, depurandola dal connotato tossico del sacrificio come privazione di sé, come svuotamento.

(Per approfondimenti si veda in particolare in Elena Pulcini, “Il desiderio di donare. Simbolica del dono e identità femminile” e “Oltre il contratto. La responsabilità appassionata”, in Il potere di unire. Femminile desiderio, cura, Bollati Boringhieri, 2003.)

Simona Massa Ope

 

 

 

 

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SIMONA MASSA

Psicologa, psicoterapeuta e psicologa analista junghiana (AIPA, IAAP).
Nella vita ho percorso parallelamente due sentieri, che rispecchiano le mie passioni principali e il mio processo di umanizzazione:
la psicologia del profondo e la scrittura.

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